Gallicanesimo oggi

Posted on 24 marzo 2009

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I fatti degli ultimi giorni non devono farci dimenticare che Monsignor Williamson era ed è, malgrado tutto, un gallicano sedeplenista che in passato ha diffuso a piene mani errori e enormità contro il Primato e l’Infallibilità pontificia. Dio voglia che le inique persecuzioni che sta ora subendo possano farlo rinsavire riguardo la vacanza della Sede Apostolica. Infatti la vera conversione non è certamente dagli Idola Fori dello Sterminazionismo ma da una sessionite inveterata che misconosce nei fatti un’Autorità che riconosce a parole.

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Mons. Williamson contro il concilio Vaticano… I !
don Giuseppe Murro

Sodalitium N° 47

«Maggiore: il Papa è infallibile.
Minore: ora questi ultimi papi sono liberali.
Conclusione:
• (liberale) dunque bisogna diventare liberali
• (sedevacantista) dunque questi “papi” non sono dei veri papi» (1).

Se chiedessimo a un cattolico cosa ne pensa di questo sillogismo, i pareri sarebbero diversi. Dopo breve riflessione, le discussioni verteranno certamente sulla strana minore che è il “motore” del sillogismo: vi sarà chi l’accetta, chi la rifiuta, chi farà delle distinzioni. Ma a nessun cattolico normale può venir in mente di spostare la discussione sulla Maggiore e mettere in dubbio l’infallibilità del Papa, riesumando il gallicanesimo sepolto dal Concilio Vaticano I.
Ecco invece quello che dice, a proposito di questo sillogismo da lui inventato, Mons. Williamson (W) in uno scritto del 9 agosto 1997, intitolato “Considerazioni liberatrici sull’infallibilità” tradotto in francese dalla rivista Le sel de la terre (1) (per chi non lo sapesse, W è uno dei quattro Vescovi della Fraternità S. Pio X e Direttore del Seminario degli Stati Uniti): “Qui, la logica è buona, e anche la minore lo è; quindi, se le conclusioni lasciano a desiderare, il problema deve essere cercato nella maggiore, radice comune delle due conclusioni opposte” (p. 21).
W vuole dimostrare che quelli che han seguito il Concilio Vaticano II (indicati con il termine “liberali”) e quelli che rifiutano l’autorità di Giovanni Paolo II (indicati con il termine “sedevacantisti”) sono nell’errore: e la “radice comune” di quest’errore sarebbe, niente meno, che credere all’infallibilità del Papa! “I liberali – dice W – condividono con i sedevacantisti una nozione dell’infallibilità molto diffusa a partire dal 1870 (concilio Vaticano I), nozione nonostante ciò falsa” (2).
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Esposizione della tesi di W
Secondo W, il problema sarebbe dunque costituito dalla definizione dell’infallibilità del Papa del 1870: questa definizione sarebbe mal interpretata (“nozione falsa”), e, anche se ben interpretata, “ha contribuito molto [per accidens] a una svalutazione della Tradizione…”.
I “liberali”, oppositori della definizione, avrebbero mutato strategia: non più negare l’infallibilità delle definizioni solenni, ma affermare che tutto quello che non è solennemente definito può essere messo in dubbio.
Contro questo nuovo errore, i teologi cattolici, invece di ricordare che “non è la definizione che fa la verità”, avrebbero finito con l’inventare, poco a poco, una falsa infallibilità del magistero ordinario: «I manuali di teologia scritti tra il 1870 e il 1950, (…) per stabilire una verità non definita solennemente, si sentono – visibilmente – nella necessità di costruire un magistero ordinario infallibile a priori, ricalcato sul magistero straordinario infallibile a priori (…). Questi ‘buoni’ autori di manuali hanno in un certo modo fatto il gioco dei liberali, senza dubbio inconsciamente, eclissando la verità oggettiva dietro la certezza soggettiva, e hanno così contribuito a preparare la catastrofe del Vaticano II, e di questo “magistero ordinario supremo” di Paolo VI, grazie al quale egli, di fatto, ha messo la Chiesa per terra!» (pp. 22-23). W estende la sua critica anche a quanti attualmente credono all’infallibilità [negativa] di un rito liturgico promulgato dal Papa, come Michael Davies (3). Invece, sempre secondo W, per rispondere ai liberali, sarebbe stato sufficiente allora ed ancor oggi appellarsi alla verità oggettiva contenuta nella Tradizione, come ha fatto Mons. Lefebvre.
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Elenco degli errori di W
Per facilitare la lettura di quest’articolo, notiamo subito gli errori presenti nel testo di W.
a) Negazione dell’infallibilità del Magistero ordinario del Papa con la pretestuosa aggiunta di condizioni. Lo stesso vale per il Magistero Ordinario Universale (4).
Negazione della regola prossima della nostra fede (il Papa), confusa con la regola remota (la Rivelazione).
c) Affermazione del fatto che un rito liturgico promulgato dal Papa può essere “intrinsecamente cattivo”.
d) Affermazione del fatto che una definizione dogmatica può essere buona in sé stessa ma cattiva per accidens, cioè a causa delle circostanze.
e) Affermazione del fatto che le definizioni della Chiesa sono dovute unicamente alla diminuzione della carità nei fedeli.
Esaminerò una ad una queste tesi di W.
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Prima, però, giacché si discute della definizione del 1870, ne dò i termini.
La definizione dogmatica del Concilio Vaticano Nella sessione del 18 luglio 1870, dopo molte discussioni dovute alle obiezioni degli anti-infallibilisti tendenti a evitare la definizione, i Padri del Concilio (quando diciamo Concilio in questo articolo, indichiamo il Vaticano I) proclamarono solennemente: “Noi, aderendo fedelmente alla tradizione accolta fin dall’inizio della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione cattolica e la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del santo concilio, insegniamo e definiamo essere dogma divinamente rivelato:
Il Pontefice Romano, quando parla ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e di dottore di tutti i cristiani, definisce in virtù della sua suprema autorità Apostolica, che una dottrina in materia di fede o di morale deve essere ammessa da tutta la Chiesa, gode, per quell’assistenza divina che gli è stata promessa nella persona del beato Pietro, di quell’infallibilità, di cui il divino Redentore ha voluto fosse dotata la sua Chiesa, quando definisce una dottrina riguardante la fede o la morale. Di conseguenza queste definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se stesse, e non in virtù del consenso della Chiesa.
Se poi qualcuno, Dio non voglia!, osasse contraddire a questa Nostra definizione: sia anatema” (DS 3074-5) (5).
Secondo quanto afferma il testo dogmatico, il Papa nell’esercizio della sua funzione di Papa (e non come persona privata) è infallibile.
In altri termini, quando, come pastore e dottore universale, il Papa dà una sentenza definitiva su una dottrina (relativa alla fede o morale), ha il privilegio dell’infallibilità, cioè gode di un’assistenza speciale dello Spirito Santo per insegnare la verità rivelata senza il minimo errore.
In ciò il Papa si distingue da tutti gli altri uomini, cattolici e non, i quali non hanno quest’assistenza promessa da Nostro Signore a S. Pietro ed ai suoi successori (Mt XVI, 19) (6).
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Struttura dell’articolo
Poiché W contesta l’autorità in materia di tutti i teologi degli ultimi 128 anni, citerò soprattutto i testi stessi del Concilio Vaticano I, come si trovano nella raccolta edita da Mansi. Leggendo gli atti e la storia del Concilio, ci si accorge di come W (e molti tradizionalisti) riprendono quegli argomenti che erano il “cavallo di battaglia” della minoranza liberale e anti-infallibilista al Vaticano I, cercando, prima della definizione, di aumentare a dismisura le condizioni dell’infallibilità del Papa e, dopo la definizione, di sminuirne la portata in modo tale che il Papa sarebbe infallibile solo molto raramente.
Dopo la crisi avvenuta con il Concilio Vaticano II e l’introduzione del nuovo messale, i “tradizionalisti” hanno iniziato giustamente a resistere all’“aggiornamento” (che contraddice molte verità della dottrina cattolica), rifiutando le riforme. Ma quando si fece loro osservare che i nuovi insegnamenti e le riforme erano promulgati da Paolo VI (e poi da Giovanni Paolo II), e che pertanto – come tutti i decreti del Sovrano Pontefice – dovevano essere accettati perché garantiti dall’infallibilità, molti “tradizionalisti” non trovarono di meglio che riprendere gli argomenti dei liberali.
Il Papa è infallibile solo a certe condizioni del tutto straordinarie – hanno sostenuto – che non si trovano tutte presenti in queste riforme; quindi, poiché esse non sono garantite dall’infallibilità, non
siamo tenuti a obbedire. Molti non hanno capito, o hanno temuto di capire, che il rifiuto delle riforme metteva in discussione l’autorità che le aveva promulgate. W segue questa corrente di pensiero che a nostro avviso è contraria alla definizione del Vaticano I, sia nei termini che nel senso.
In questo articolo analizziamo i punti negati da W, soffermandoci particolarmente sul primo.
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a) Primo errore di W sul Magistero ordinario e sulle condizioni per l’infallibilità.
I teologi distinguono in genere un magistero ordinario del Papa (da solo) e un magistero ordinario della Chiesa (“ordinario e universale”). Il secondo è stato definito come infallibile dal Vaticano I (DS 3011): ne parlerò alla fine di questo punto “a)”.
Quanto al magistero ordinario del Papa, in genere si afferma che è teologicamente certo che esso è infallibile. Infatti, il Papa gode della stessa infallibilità della Chiesa (DS 3074). Ora, la Chiesa è infallibile nel suo magistero ordinario (DS 3011). Quindi, anche il Papa, è infallibile nel suo magistero ordinario (7). Questa argomentazione, sarebbe sufficiente per provare quanto gravemente si sbagli W. Nel leggere però i testi del magistero e gli atti del Vaticano I, mi sono accorto che in realtà la stessa definizione dell’infallibilità del Papa quando parla ex cathedra (DS 3074) non fa alcuna distinzione tra Magistero ordinario o Magistero solenne del Papa.
Ogniqualvolta il Papa parla non da persona privata, ma da Papa, insegna autenticamente (con autorità) (8), e quindi può insegnare ex cathedra. Questo insegnamento non è raro e straordinario, come nelle solenni definizioni dogmatiche (ad es.: l’Immacolata Concezione nel 1854; l’Assunzione nel 1950), ma tutti i giorni il Papa può insegnare in maniera definitiva alla Chiesa universale, su argomenti che si riferiscono alla fede o alla morale; ovviamente tutta la Chiesa è obbligata ad abbracciare, in foro esterno ed interno, l’insegnamento dell’autorità suprema. Il Papa, in questo caso, non è tenuto ad usare un modo determinato, o la forma solenne: se egli parla come Papa, basta che si capisca, in qualsiasi maniera, che vuol dare una sentenza definitiva su un argomento legato anche solo indirettamente con la fede o morale.
In conclusione: noi affermiamo che il termine ex cathedra indica solo l’infallibilità del Papa sia nel magistero ordinario che solenne.
W afferma che il termine ex cathedra indica il Magistero solenne, enfatizzandone le quattro condizioni, e negando ogni infallibilità al magistero ordinario. Passo adesso a provare la mia tesi, con i testi del Magistero e gli atti del Vaticano I.
Insegnamento della Chiesa sul Magistero Ordinario del Papa
Clemente VI nel 1351 chiese al patriarca degli Armeni di firmare una formula di fede, in cui si diceva anche: “Se tu hai creduto e anche ora credi che solo il Pontefice Romano può porre fine ai dubbi che sorgono intorno alla fede cattolica, mediante una deliberazione autentica a cui si deve aderire in modo irrevocabile, e che tutto ciò che lui stesso dichiara essere vero, in forza dell’autorità delle chiavi a lui consegnate da Cristo, deve essere ritenuto vero e cattolico, e ciò che lui dichiara essere falso ed eretico, tale deve essere considerato” (9).
Pio XI insegna: “Il magistero della Chiesa – stabilito per volere divino in terra, allo scopo di custodire perennemente intatte le verità rivelate, e di portarle con sicurezza e facilità alla conoscenza degli uomini – ogni giorno, è vero, è esercitato per mezzo del Pontefice Romano e dei Vescovi che sono in comunione con lui; ma ha pure il compito di procedere alla definizione di qualche punto di dottrina, con riti o decreti solenni, quando fosse necessario resistere con più forza agli errori ed alle contestazione degli eretici, o quando bisognasse imprimere con più precisione e chiarezza certi punti di dottrina nelle menti dei fedeli” (10). Ancora Pio XI: “Disdirebbe ad un
cristiano… il ritenere che la Chiesa, da Dio destinata a maestra e reggitrice dei popoli, non sia abbastanza illuminata intorno alle cose e circostanze moderne; ovvero il non prestarle assenso ed obbedienza se non in ciò che essa impone per via di definizioni più solenni, quasi che le altre sue decisioni si potessero presumere o false, o non fornite di sufficienti motivi di verità e di onestà” (11).
Pio XII: «Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, di per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, di cui valgono pure le parole: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc X, 16); e per lo più, quanto viene proposto e inculcato nelle Encicliche, è già, per altre ragioni, patrimonio della dottrina cattolica. Che se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione fra i teologi» (12). Ancora Pio XII: «Non è forse il Magistero… il primo ufficio della Nostra Sede Apostolica? (…) Sulla Cattedra di Pietro, Noi siamo assisi unicamente perché Vicario di Cristo. Noi siamo il suo Rappresentante sulla terra; siamo l’organo per mezzo del quale fa sentire la sua voce Colui che è il solo Maestro di tutti (Ecce dedi verba mea in ore tuo, Ger. 1, 9)» (13).
Da questi testi risulta che la Chiesa ha insegnato che il Magistero infallibile può essere sia ordinario (esercitato tutti i giorni) sia solenne.
Insegnamento del Concilio Vaticano sul Magistero del Papa
La materia trattata dal Concilio venne preparata da commissioni riunitesi prima del Concilio stesso e fu presentata ai Padri sotto forma di schemi. Questi ultimi venivano discussi dai Padri che, se lo ritenevano necessario, proponevano degli emendamenti, esaminati in seguito dai membri della
Deputazione della Fede (14). La Deputazione dunque svolse un ruolo centrale, rispondendo anche alle obiezioni di chi era contrario agli schemi proposti. Per la nostra questione sono dunque di grande importanza gli interventi dei membri della Deputazione della Fede, nonché le loro risposte alle obiezioni: sono infatti questi prelati che spiegheranno il senso esatto della definizione conciliare, correggendo le false interpretazioni.
Per una retta interpretazione del Concilio, sono inoltre di aiuto gli schemi proposti, anche quelli che non vennero discussi a causa dell’interruzione del Concilio: normalmente gli schemi che furono trattati, ricevettero poche modifiche, almeno non nella sostanza. Infine sono anche utili alcuni interventi dei Padri favorevoli alla definizione in cui si possono trovare delle prove inoppugnabili sull’infallibilità del Papa: il Concilio diede loro ragione definendo il dogma. Appoggiandomi su queste testimonianze, esaminerò successivamente le famose “quattro condizioni” che, in realtà, sono solo la spiegazione del termine ex cathedra, espressione che commenterò alla fine.
Seguirà un’appendice sul magistero ordinario del Papa e sul magistero ordinario e universale. Concluderò così l’analisi del primo errore di W [punto “a)”].
Le quattro condizioni
Secondo la tesi di W il Papa è infallibile “a quattro condizioni”, e non “a tre e mezzo”.
Dato che queste condizioni non sono state inventate da W, ma sono tratte dalla definizione conciliare, vediamo il significato che ha dato loro il Concilio.
Ricordiamo quali sono.
Il Papa:
1° in virtù della sua suprema autorità;
2° definisce;
3° una dottrina sulla fede e la morale;
4° affermando che questa dottrina deve essere tenuta da tutta la Chiesa.
1ª: Il Papa utilizza la suprema autorità
Diverse obiezioni erano sorte contro la definizione dell’infallibilità del Papa, tra le quali alcune portanti sulla dottrina, altre sull’opportunità della definizione, altre sull’oggetto che sarebbe stato difficile da delimitare, altre sul termine stesso che poteva essere mal interpretato.
Rispose alle obiezioni e diede la spiegazione del testo, che poi venne definito, la Deputazione della Fede per mezzo di Mons. Gasser, Vescovo di Bressanone (15).
“Il soggetto dell’infallibilità è il Romano Pontefice, in quanto Pontefice, ovvero in quanto persona pubblica in relazione alla Chiesa universale” (16). “Ma molti tra i reverendissimi Padri – disse Gasser – non contenti di queste condizioni, vanno oltre, e vogliono introdurre anche in questa costituzione dogmatica delle condizioni, che in vario modo si trovano in diversi trattati di teologia e che riguardano la buona fede e la diligenza del Pontefice nell’indagare e nell’enunciare la verità”.
Gasser rispose che poco importavano le motivazioni e le intenzioni del Pontefice, che riguardavano la sua coscienza; ma che solo contava il fatto che egli parlava alla Chiesa: “Nostro Signore Gesù Cristo (…) volle che il carisma della verità dipendesse dalla relazione pubblica del Pontefice con la Chiesa universale; altrimenti questo dono dell’infallibilità non sarebbe un mezzo efficace per conservare e riparare l’unità della Chiesa. Perciò non bisogna temere che per mala fede e per la negligenza del Pontefice la Chiesa universale possa essere indotta in errore sulla fede. Infatti la tutela di Cristo e l’assistenza divina promessa ai successori di Pietro è una causa così efficace, che il giudizio del Sommo Pontefice, se fosse erroneo e nocivo per la Chiesa, sarebbe impedito; oppure se il Pontefice fa effettivamente una definizione, questa sarà infallibilmente vera” (17).
La prima condizione indica dunque che il Papa parla come Papa e non come persona privata: questo sarà ancora meglio dimostrato nel paragrafo che tratta l’espressione ex cathedra.
2ª: Definisce.
3ª: Una dottrina sulla fede e la morale.
Mons. Gasser spiega questo punto: “Si richiede l’intenzione manifestata di definire una dottrina, vale a dire di porre fine alla fluttuazione su una dottrina o su una cosa da definire, dando una sentenza definitiva, e proponendo quella dottrina come da essere tenuta dalla Chiesa universale” (18).
In altri termini, il Papa fa capire, in un qualsiasi modo, che una dottrina non può essere liberamente discussa nella Chiesa. Se invece egli non vuol dirimere la questione, allora essa resta aperta, non vi è una definizione, ma un orientamento pratico che può essere rivisto. Ad esempio, Gregorio XVI si pronunciò in maniera definitiva sulla libertà religiosa in una semplice Enciclica (19), e – poiché alcuni credevano che egli non avesse portato una sentenza definitiva – lo ribadì in un’altra Enciclica (20). Leone XIII ha dato una sentenza definitiva sulla validità delle ordinazioni anglicane; Pio XII sulla liceità dei “metodi naturali” o sulla materia e forma del Sacramento dell’Ordine. Sempre Pio XII ribadì nell’enciclica Humani generis che la dottrina esposta in Mystici Corporis era definitiva (21); nella stessa enciclica, chiarì che su alcuni punti della teoria evoluzionista vi è ancora libertà di ricerca e discussione (dunque egli non definisce), mentre su altri punti (come la diretta creazione dell’anima umana da parte di Dio, o la condanna del poligenismo) non vi è tale libertà (DS 3896-7).
Per quel che riguarda la terza condizione (l’oggetto della definizione) nessuno mette in dubbio che il Papa sia infallibile quando definisce un dogma concernente direttamente la fede o la morale, e/o condanna l’eresia opposta (oggetto primario del Magistero). Questa infallibilità del Papa è di fede, chi la nega è eretico.
Il Papa, però, è infallibile anche quando tratta di tutto ciò che ha una relazione anche solo indiretta con la fede e la morale (oggetto secondario del Magistero): questa infallibilità del Papa è almeno teologicamente certa (22), chi la nega commette un peccato gravissimo contro la fede (23). Per rendere esplicita l’infallibilità del Papa anche sull’oggetto secondario, alcuni Padri conciliari avevano proposto di aggiungere alla parola “definisce”, il verbo “decreta” (decernit). Mons. Gasser così rispose. «La Deputazione della fede non ha l’intenzione di dare a questo verbo [definisce] il senso giuridico, per cui significhi solo che si mette termine a quelle controversie che sorsero in materia di eresia o di una dottrina, che appartiene propriamente alla fede. Ma la parola “definisce” significa che il Papa, direttamente e in maniera da chiudere la questione, proferisce una sua sentenza su una dottrina che riguarda le cose della fede e della morale, in modo che ormai ciascun fedele possa essere certo sul pensiero della Sede apostolica, sul pensiero del Pontefice Romano; di modo che ciascuno sappia con certezza che questa o quella dottrina è considerata dal Pontefice Romano come eretica, prossima all’eresia, certa o erronea ecc. Ecco il senso del termine “definit” (…) Nell’applicare questa infallibilità ai singoli decreti del Pontefice Romano, bisogna fare una distinzione: in modo tale che alcuni (e lo stesso vale per le definizioni dogmatiche dei concili) sono certi di fede: perciò chi negasse che il Pontefice in tale decreto fosse infallibile, già, per il fatto stesso (…) sarebbe eretico; altri decreti del Pontefice Romano sono anch’essi certi quanto all’infallibilità, ma questa certezza non è la stessa (…) in modo tale che questa certezza sarà solo una certezza teologica in questo senso, che chi negasse che la Chiesa o allo stesso modo il Pontefice in tale decreto fosse infallibile, non sarebbe apertamente eretico in quanto tale, ma commetterebbe un errore gravissimo e, sbagliando in tal modo, un peccato gravissimo» (24).
Riassumendo: la 2ª condizione, definire, significa insegnare in maniera definitiva; la 3ª, sulla fede e sui costumi, include non solo le verità rivelate, ma anche – seppur diversamente – le cose connesse con la rivelazione.
4ª: Afferma che questa dottrina deve essere tenuta da tutta la Chiesa
L’espressione “deve essere tenuta” è collegata a quanto appena detto, indica cioè l’assenso che bisogna dare anche alle verità non contenute formalmente nel deposito della rivelazione, che non sono strettamente “di fede” (queste ultime devono essere “credute” e non solo “tenute”). Il Concilio ha fatto questa distinzione per mettere in evidenza che è duplice l’oggetto dell’infallibilità, contro i liberali che volevano restringerlo solo alle verità di fede. Salaverri espone largamente questa distinzione fatta al Concilio (25). Inoltre se il Papa parla come Papa, e definisce una dottrina riguardante la fede e la morale, è ovvio che tutti i fedeli sono tenuti ad abbracciarla, anche se questo non è detto esplicitamente.
W, invece, sembra voler dire che il Papa, per essere infallibile, dovrebbe specificare esplicitamente che tutta la Chiesa è tenuta ad aderire a questa dottrina, come se un cristiano potesse non aderire alla Rivelazione!
Questa interpretazione è sbagliata. Durante il Concilio, il Vescovo di Burgos, Mons. Anastasio Yusto, pensò che fosse necessario aggiungere, proprio in questo punto della definizione, la frase seguente, per rendere più esplicito il dovere dei fedeli di abbracciare la dottrina proposta: “Fermo restando l’obbligo, al quale tutti i cattolici sono tenuti di sottomettersi al magistero supremo del Pontefice Romano quanto alle altre dottrine, che non sono proposte come di fede…” (26).
Mons. Gasser, a nome della Deputazione della Fede, giudicò questa frase inopportuna, aggiungendo che a questo si era provveduto nella Costituzione dogmatica già approvata dal Concilio (27). Il Concilio infatti aveva definito: “La Chiesa, che con l’ufficio apostolico di insegnare, ha ricevuto il mandato di custodire il deposito della fede, ha anche, da Dio, il diritto e il dovere di proscrivere la falsa scienza, perché nessuno venga ingannato dalla filosofia e da vuoti raggiri.
Per questo i fedeli cristiani non solo non hanno il diritto di difendere come legittime conclusioni della scienza le opinioni riconosciute contrarie alla dottrina della fede, specie se condannate dalla Chiesa, ma sono strettamente tenuti a considerarle piuttosto come errori, che hanno solo un’ingannevole parvenza di verità” (28). Da ciò risulta evidente che i fedeli sono sempre tenuti ad aderire ai giudizi della Chiesa: non è necessario che la Chiesa specifici quest’obbligo.
Tale questione non è nuova ed è stata già risolta da tempo (29). Riportiamo un testo di P. Kleutgen, al Concilio: “Si deve la sottomissione di volontà alla Chiesa che definisce, anche se non aggiunge nessun precetto.
Poiché Dio ci ha dato la Chiesa come Madre e Maestra per tutto ciò che riguarda la religione e la pietà, siamo tenuti ad ascoltarla quando ella insegna. Perciò, se il pensiero e la dottrina di tutta la Chiesa è mostrata, siamo tenuti ad aderirvi, anche se non vi è definizione: quanto più se questo pensiero o questa dottrina ci sono mostrate con una definizione pubblica?” (30).
Alcuni, però, credono che quando il Papa si rivolge a una o alcune persone, anche se definisce una dottrina che vale per tutta la Chiesa, non sarebbe infallibile. Si tratta di un errore (31). Il Papa può indirizzarsi a chiunque, anche ad una singola persona, ma se egli parla come Papa, come persona pubblica, come Capo di tutta la Chiesa (e ciò che dice è in relazione con il deposito rivelato, con volontà di chiudere una questione) tutte le “condizioni” sono realizzate.
Così Pio XII, in un discorso rivolto alle ostetriche italiane (29-10-1951) – dunque un gruppo particolare di persone – risolse la discussione sull’uso dei “metodi naturali”. Gli errori di Marsilio da Padova furono condannati in un documento indirizzato al Vescovo di Worcester (DS 941); Benedetto XIV risolse il problema dell’incorporazione degli eretici alla Chiesa in forza del Battesimo, in una lettera al Vescovo di York (DS 2566 e ss.). Perciò Gregorio XVI, indirizzandosi al Vescovo di Friburgo, insegnò: “[Quello che noi diciamo] è conforme agli insegnamenti ed agli avvisi che voi già conoscete, o venerabile Fratello, per averli appresi dalle Nostre Lettere o Istruzioni scritte a diversi arcivescovi e vescovi, sia nelle Lettere del Nostro predecessore Pio VIII, stampate per i suoi o per i Nostri ordini. Poco importa se queste Istruzioni siano state indirizzate soltanto a qualche vescovo che aveva chiesto informazioni alla Sede Apostolica: quasi che agli altri vescovi fosse stata concessa la libertà di non attenersi a quelle decisioni!” (32).
Conclusione: ogniqualvolta il Papa parla come Papa, e definisce una dottrina che riguarda la fede o la morale, egli è infallibile e tutti i cattolici sono obbligati a tenere o a credere la dottrina definita.
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Ex cathedra
Quest’espressione, che racchiude in sé il significato delle cosiddette “quattro condizioni”, è stata spiegata esplicitamente dal Concilio.
Mons. Gasser: «Il pontefice è detto infallibile quando parla “ex cathedra”. Questa formula è stata accettata nella teologia scolastica, ed il senso di questa formula, come è considerato nello stesso corpo della definizione, è il seguente.
Il S. Pontefice parla ex cathedra: primo, non decreta qualcosa come dottore privato, né solo come vescovo o ordinario di una diocesi o provincia, ma insegna con l’incarico di supremo pastore e dottore di tutti i cristiani.
Secondo, non basta un qualsiasi modo di proporre la dottrina, (…) ma si richiede l’intenzione manifestata di definire una dottrina, cioè di porre fine alla fluttuazione su una dottrina o su una cosa da definire, dando una sentenza definitiva, e proponendo quella dottrina come da essere tenuta dalla Chiesa universale. Quest’ultimo è qualcosa di intrinseco ad ogni definizione dogmatica sulla fede o la morale, che è insegnata dal supremo pastore e dottore della Chiesa universale e che deve essere tenuta da tutta la Chiesa universale: [il Papa] deve anche esprimere questa stessa proprietà e questa nota di definizione propriamente detta in un qualsiasi modo, quando definisce che la dottrina deve essere tenuta dalla Chiesa universale» (33).
Spiegava P. Kleutgen, nella relazione allo schema riformato: «Dalla stessa funzione della Chiesa, si conosce [l’infallibilità] anche dalle parole con cui Gesù Cristo promise l’assistenza dello Spirito Santo: “Egli vi insegnerà ogni cosa” (Gv XVI, 26); “Vi insegnerà ogni verità” (Gv XVI, 13). A nostro avviso, non si devono interpretare queste parole, per cui la Chiesa è istruita dallo Spirito Santo in quelle cose che non riguardano per nulla la salvezza eterna; ma neanche devono essere prese in modo così ristretto, che pensiamo che la Chiesa è assistita solo nelle verità rivelate. Forse che una promessa così grande, non abbraccia tutte le cose necessarie a capire fruttuosamente la dottrina di Cristo e una volta conosciuta metterla in pratica in tutta la nostra vita? Né si richiede, perché i giudizi della Chiesa qui considerati siano certissimi, che lo Spirito Santo riveli delle cose nuove; ma solo che l’assista sia nell’intelligenza della parola divina, sia nell’uso della ragione. Forse che anche su tante cose che non sono rivelate, non giudichiamo noi stessi ogni giorno, e dobbiamo giudicare? Ciò che ciascuno di noi fa ogni giorno con il pericolo di sbagliare, questo fa la Chiesa nei suoi giudizi pubblici, immune da questo pericolo, per l’assistenza dello Spirito Santo (…).
In alcuni libri pubblicati si legge, secondo una sentenza comune dei teologi, che il Pontefice Romano allora soltanto parla “e cathedra”, quando propone a credere dei dogmi di fede divina. È vero che, se si guarda solo alle parole, si legge questo presso non pochi teologi più recenti; ma è lontanissimo dalla verità che questa sentenza sia comune tra i teologi. Tutti gli antichi e molti dei recenti rendono quelle parole “parlare e cathedra” con queste o simili: “iudicialiter”, o “in sudicio determinare”, “pro potestate decernere”, “cum auctoritate apostolica”, “ut papam loqui” (34) ecc. di modo che la locuzione e cathedra si distingue dall’altra per il modo con cui insegna il pontefice, non per la cosa che trasmette, né per la censura che emette.
Sembra che anche quelli più recenti (…) non diano un significato diverso. Infatti poiché, come a volte accade, spiegano la cosa per mezzo dei contrari, non dicono: non vi è locuzione e cathedra, se il Pontefice Romano condanna un’opinione con una censura minore; ma se ciò che gli sembra, l’esprime o lo consiglia, senza però decretare nulla con autorità.
Pertanto questi teologi parlano di dogma di fede, nel senso che distinguono la sentenza definita con autorità apostolica dalla sentenza del dottore privato, e non nel senso che distinguono la sentenza definita con la nota di eresia da quella con una censura minore» (35).
Da queste spiegazioni risulta evidente che il termine ex cathedra si contrappone al termine “dottore privato”, ed indica il Papa in quanto, come persona pubblica, definisce qualcosa che fa parte dell’oggetto primario o secondario del Magistero.
In maniera chiara e popolare Mons. De Ségur, in un’opera approvata da Pio IX, conferma questa conclusione: “Bisogna distinguere: nel Capo della Chiesa, vi è il Papa e l’uomo. L’uomo è fallibile, come tutti gli altri uomini. Quando il Papa parla come uomo, come persona privata, può certamente sbagliarsi, anche quando parla di cose sante.
Come uomo, il Papa non è più infallibile di me o di voi. Ma quando parla come Papa, come Capo della Chiesa e come Vicario di Gesù Cristo, è ben altra cosa. Allora è infallibile: non è più l’uomo che parla, è Gesù Cristo che parla, che insegna, che giudica per mezzo della bocca del suo Vicario” (36).
Magistero ordinario e condizioni
In alcuni testi del Concilio risulta evidente che i Padri, quando parlano di infallibilità, non fanno distinzione tra magistero ordinario, che si esercita continuamente, e magistero solenne. Né l’infallibilità esiste solo in canoni, forme solenni o condizioni particolari.
Mons. Gasser, a nome della Deputazione della fede, nell’intervento succitato, così si esprimeva: “Nella Chiesa di Gesù Cristo (…) il centro dell’unità deve agire continuamente e permanentemente con un’autorità incrollabile” (37). “I Romani Pontefici come testimoni, dottori e giudici della Chiesa universale scesero incessantemente nell’arena per combattere per la fede, poiché potevano non sbagliare in forza della promessa divina.
Che nessuno dica che i Pontefici Romani, raccomandando l’ossequi dovuto alla dignità della loro sede, hanno sostenuto la loro causa e perciò non gli si può credere. Se le testimonianze dei Pontefici Romani vengono infirmate, allora lo stesso varrebbe per tutta la gerarchia ecclesiastica: infatti l’autorità della Chiesa docente non può essere provata se non per mezzo della Chiesa docente” (38).
Il medesimo relatore della Deputazione vedeva un’altra prova dell’infallibilità del Papa nella necessità per i cattolici della comunione con la cattedra di Pietro (39): «Questa fede dei Papi nella loro infallibilità personale, la Chiesa l’ha affermata (…) quando considerava l’unione con la Santa Sede come interamente e assolutamente necessaria.
Difatti l’unione con la cattedra di Pietro era ed era considerata l’unione con la Chiesa e con Pietro stesso, e di conseguenza era equiparata con la verità rivelata da Gesù Cristo. S. Girolamo scriveva così: “Non conosco Vitale, rigetto Melezio, Paolino mi è sconosciuto.
Colui che non raccoglie con te (cioè con il Papa Damaso), disperde; in altri termini, colui che non è con Gesù Cristo è con l’Anticristo” (40) (…). La Chiesa ha fatto conoscere il suo assentimento alla fede dei Papi, quando tutti i cristiani, che avevano veramente la fede, rigettavano ogni dottrina come erronea appena era sta condannata e rigettata da un Papa. “Come l’Italia potrebbe ammettere, dice S. Girolamo (41), ciò che Roma ha rigettato? Come i vescovi ammetterebbero ciò che Roma ha condannato?”. Infine possiamo ancora provare quest’assentimento dal fatto che in tutte le questioni della fede si faceva ricorso alla Sede apostolica come a Pietro ed all’autorità di Pietro, e che mai si è permesso di far appello al di fuori della Sede romana e delle sue decisioni dogmatiche».
Ancora Mons. Gasser così rispondeva a chi affermava che il Pontefice, nel dare delle definizioni, doveva osservare una certa forma: “Ciò non può esser fatto, infatti non si tratta di una cosa nuova.
Già migliaia e migliaia di giudizi dogmatici furono emanati dalla Sede apostolica; ma dov’è mai il canone che prescrive la forma da osservare in tali giudizi?” (42).
La stessa cosa diceva Mons. de Ségur: «[Il Papa] è infallibile quando parla come Papa (…) quando insegna pubblicamente e ufficialmente delle verità che interessano tutta la Chiesa, per mezzo di una “Bolla”, o una “Enciclica”, o un atto di questo genere» (43).
Una conferma di quanto abbiamo esposto si trova in diversi interventi dei Padri del Concilio Vaticano, quali Mons. de la Tour d’Auvergne, Vescovo di Bourges (44), Mons. Maupas, Vescovo di Zara (45), Mons. Freppel, Vescovo di Angers (46). Per essi il Papa è infallibile con il suo Magistero ordinario, che si esercita continuamente, senza necessità di enfatizzarne le condizioni. Magistero ordinario universale e condizioni
Finora si è parlato solo del Magistero del Papa. I domenicani di Avrillé, che hanno pubblicato il testo di W, affermano, in una nota, che anche nel Magistero Ordinario e Universale dei Vescovi (uniti con il Papa) occorrono delle condizioni. E, dulcis in fundo, quali siano queste condizioni non si sa! Il Concilio Vaticano non l’avrebbe detto.
Avrebbe definito che questo Magistero è infallibile, ma non avendone precisato le condizioni resterebbe completamente oscuro, noi ignoreremmo quando esiste. In pratica il Concilio avrebbe definito un… bel nulla!
Leggere per credere: “Il concilio Vaticano I ha anche esposto che i cattolici devono credere, oltre ai giudizi solenni, l’insegnamento del magistero ordinario universale (DS 3011).
Ma non ha precisato a quali condizioni questo magistero ordinario è infallibile” (47). Ora l’affermazione, così come è detta, contraddice la definizione del Concilio Vaticano, che espone chiaramente quando tale Magistero è infallibile, definendo che qualsiasi insegnamento del M.O.U. è di fede: “Devono essere credute di fede divina e cattolica tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata e che sono proposte a credere dalla Chiesa come rivelate da Dio sia con un giudizio solenne, sia con il magistero ordinario e universale” (DS 3011). La definizione è stata ripetuta anche dal Codice piano-benedettino (can. 1323, §1). Pio IX già nella Tuas libenter aveva insegnato che l’atto di fede non deve essere limitato alle verità definite, ma deve estendersi a quello “che è trasmesso come divinamente rivelato dal magistero ordinario di tutta la Chiesa sparsa sulla terra” (48).
Tutto oscuro? Per chi non l’avesse ancora capito (ma non c’è peggior cieco…), tutto ciò vuol dire che ogniqualvolta la Chiesa, cioè l’unione morale di tutti i Vescovi uniti con il Papa, insegna una verità come appartenente al deposito rivelato, deve essere creduta di fede divina. Le condizioni famose? Ci sono tutte: 1ª: tutti i vescovi con il Papa costituiscono la Chiesa docente, la suprema autorità; 2ª: propone a credere; 3ª e 4ª: una verità contenuta nella Rivelazione, che richiede da sé stessa l’assenso a causa dell’autorità di Dio che rivela (49). Quel che si può dire tutt’al più è che il fedele ha maggior facilità a conoscere una verità insegnata dal magistero solenne che da quello ordinario e universale. Di tutto ciò che riguarda il Magistero Ordinario e Universale abbiamo parlato già lungamente su Sodalitium ed invitiamo i lettori a riportarsi agli articoli pubblicati (50).
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Secondo errore di W: negazione della Regola prossima della nostra fede, confusa con la regola remota
W afferma dapprima una cosa giusta: la definizione della Chiesa non “crea” le verità, esse ci sono state rivelate da Dio, esistono prima della definizione della Chiesa, la quale le porta alla conoscenza dei fedeli. Per convincersene, basta rileggere proprio il Vaticano I, laddove scrive: “Infatti, ai successori di Pietro è stato promesso lo Spirito Santo non perché per la sua rivelazione manifestassero una nuova dottrina, ma perché con la sua assistenza custodissero santamente ed esponessero fedelmente la rivelazione trasmessa dagli apostoli, cioè il deposito della fede” (Pastor æternus, cap. IV, DS 3070). L’oggetto della nostra fede, quindi, è la divina rivelazione (contenuta nella Tradizione e nella Scrittura) e il motivo della fede è l’autorità di Dio che si rivela, come insegnano tutti i manuali tanto disprezzati da W. Ma W prosegue: “Dire che (…) là dove non c’è definizione a quattro condizioni non c’è verità certa, è perdere tutto il senso della verità, è la malattia del soggettivismo che non può concepire verità oggettiva senza certezza soggettiva” (51). Qui egli dimostra di non capire appieno l’importante ruolo del magistero della Chiesa. Infatti, come può un fedele da solo conoscere la verità “oggettiva”?
Scriveva sant’Agostino: “Non crederei ai vangeli, se l’autorità della Chiesa cattolica non me lo dicesse” (52). Allo stesso modo, parafrasando sant’Agostino, si può dire: “Non crederei alla tradizione, se l’autorità della Chiesa cattolica non me lo dicesse”. Un fedele, come può sapere, ad esempio, che il Vangelo di S. Giovanni è integro, che le quattordici Epistole di S. Paolo o i libri dei Maccabei sono rivelati, che alcune opere di Tertulliano sono buone ed altre no, che il Concilio di Nicea è ecumenico, che bisogna interpretare rettamente alcuni scritti di S. Agostino…? Dovrebbe fidarsi della propria perspicacia, dandosi ad un libero esame della Scrittura o della Tradizione, come affermano gli anglicani e gli ortodossi? Non sarebbe ciò un cadere in un altro soggettivismo? Proprio questo affermano i protestanti per la S. Scrittura: ognuno la legge ed è capace da sé stesso di comprenderne il senso. Così i modernisti: dato che molti di loro avevano compiuto studi approfonditi di esegesi, ritenevano di poter interpretare le S. Scritture da soli, senza doversi sottomettere al Magistero della Chiesa, e S. Pio X condannò questa loro teoria (DS 3401-8). Ed ecco che W afferma la stessa cosa a proposito della Tradizione: ciascuno può da solo cercare nella Tradizione le verità da credersi, la Tradizione sarebbe la regola prossima della fede, indipendentemente dal Magistero della Chiesa (53). A parte l’enorme difficoltà pratica (non si vede come un fedele possa consultare Migne, Mansi, la Patristica…), come si farà a scegliere ed interpretare il testo di uno o più Padri? Come si farà a giudicare se tale tradizione è buona o cattiva? La disciplina della Chiesa è mutata attraverso i secoli; ad esempio: è più “tradizionale” la comunione sotto le due specie o quella sotto una sola specie? Anche tra i più grandi Padri della Chiesa vi possono essere discordanze, o interpretazioni dubbiose. Fu esattamente questo l’errore dei giansenisti: prendere S. Agostino come regola prossima di fede, pretendere di sapergli dare la giusta interpretazione, indipendentemente dal Magistero della Chiesa.
La Tradizione non può essere regola prossima: se sorge un dubbio tra i cattolici, chi potrà mai risolverlo? La Tradizione è muta, il Magistero invece parla, può risolvere le questioni. Dio stesso, nel darci la Rivelazione, ha voluto darci lo strumento, oggettivo e non soggettivo, affinché infallibilmente possiamo conoscere quali sono le verità che dobbiamo credere per la nostra salvezza.
Questo strumento è il Magistero della Chiesa, che attinge alla Rivelazione (contenuta nella Scrittura e Tradizione) e, assistito dallo Spirito Santo, propone a credere ai fedeli le verità rivelate o connesse con il rivelato.
La definizione infallibile sul Magistero ordinario e universale, considerata sopra (DS 3011), giustamente illustra questo: ogni fedele deve credere di fede il rivelato che la Chiesa gli propone a credere. Perciò si dice: Scrittura e Tradizione costituiscono la Regola remota della Fede; il Magistero è la Regola prossima della nostra fede, cioè è quella più vicina al fedele. Sodalitium ha già trattato di quest’argomento (54).
Se la regola prossima della Fede fosse la Tradizione, allora sarebbe impossibile ogni progresso del dogma: il compito della Chiesa sarebbe solo di conservare i dogmi, come affermano gli “ortodossi”. Infatti, secondo questo modo di vedere, se si volesse studiare il deposito rivelato per conoscerlo più profondamente e per esplicitare le verità contenute in modo implicito, ci si troverebbe davanti ad un problema insolubile: le verità scoperte grazie a questo studio, essendo “nuove” alla nostra conoscenza, contraddirebbero la regola prossima, la Tradizione, e la Chiesa non potrebbe mai definirle.
Invece, secondo la dottrina cattolica, la Tradizione è regola remota, mentre il Magistero vivente è la regola prossima della nostra fede. È il Magistero che dà la retta interpretazione della Scrittura e della Tradizione, e non siamo noi stessi a farlo. Proveremo il nostro asserto con l’autorità del Magistero e del Concilio Vaticano stesso.
Insegnamento della Chiesa sulla Regola prossima della fede
Pio XII (55) insegna: «E benché questo sacro Magistero debba essere per qualsiasi teologo, in materia di fede e di costumi, la norma prossima e universale di verità (in quanto ad esso Cristo Signore ha affidato il deposito della fede – cioè la S. Scrittura e la Tradizione divina – per essere custodito, difeso e interpretato), tuttavia viene alle volte ignorato, come se non esistesse, il dovere che hanno i fedeli di rifuggire pure da quegli errori che in maggiore o minore misura si avvicinano all’eresia, e quindi “di osservare anche le costituzioni e i decreti, con cui queste false opinioni vengono dalla Santa Sede proscritte e proibite” (56). Quanto viene esposto nelle Encicliche dei Sommi Pontefici circa il carattere e la costituzione della Chiesa, viene da certuni, di proposito ed abitualmente, trascurato con lo scopo di far prevalere un concetto vago che essi dicono preso dagli antichi Padri, specialmente greci. I Pontefici infatti – essi dicono – non intendono dare un giudizio sulle questioni che sono oggetto di disputa tra i teologi; è quindi necessario ritornare alle fonti primitive, e con gli scritti degli antichi si devono spiegare le costituzioni e i decreti del Magistero.
Queste affermazioni vengono fatte forse con eleganza di stile; però esse non mancano di falsità. Infatti è vero che generalmente i Pontefici lasciano liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a discussioni fra i dotti di miglior fama; però la storia insegna che parecchie questioni che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse».
Leone XIII: «Lo stabilire poi quali siano le dottrine rivelate è ufficio proprio della Chiesa insegnante, a cui Dio commise la custodia e l’interpretazione della sua parola; e il sommo maestro nella Chiesa è il Pontefice Romano. (…) [Occorre l’ubbidienza al Magistero della Chiesa e del Papa]. La quale obbedienza ha da essere perfetta, perché è richiesta dalla stessa fede, ed ha di comune il non poter essere parziale… Il che fu mirabilmente spiegato da san Tommaso d’Aquino con le seguenti parole: “(…) È poi manifesto che, chi aderisce alla dottrina della Chiesa, come a regola infallibile, consente a tutto ciò che la Chiesa insegna; altrimenti, se degli insegnamenti di lei egli ritenesse solo quanto gli garba e rigettasse quanto non gli aggrada, egli non seguirebbe, come norma infallibile,
la dottrina della Chiesa, ma la propria volontà…
L’unità [della Chiesa] non si potrebbe conservare, ove ogni questione sorta intorno alla fede, non venisse decisa da Chi presiede alla Chiesa universale, in modo che la sua sentenza sia fermamente accettata da tutta la Chiesa. Quindi alla sola autorità del Sommo Pontefice appartiene l’approvare una nuova edizione del Simbolo, come ogni altra cosa che riguarda tutta la Chiesa” (57)…
Per questo motivo il Pontefice deve poter giudicare cosa contengono le parole divine, quali dottrine concordano e quali discrepano con esse: per lo stesso motivo deve poter mostrare quali cose sono oneste e quali turpi, che cosa è necessario fare e che cosa è necessario fuggire, per ottenere la salvezza eterna: altrimenti non potrebbe essere per l’uomo un sicuro interprete delle parole di Dio, né una guida sicura per vivere» (58).
S. Pio X pone nella regola della fede anche le leggi della Chiesa e tutto ciò che il Papa comanda: “Nell’obbedienza a questa suprema autorità della Chiesa e del Sommo Pontefice, per la cui autorità ci si propongono le verità della fede, ci s’impongono le leggi della Chiesa e ci si comanda tutto ciò che è necessario al buon regime di essa, sta la regola della nostra fede” (59).
Insegnamento del Concilio Vaticano sulla Regola prossima della fede
Mons. Gasser, nel suo memorabile intervento, prova che il Papa è infallibile perché il suo Magistero costituisce la regola della fede (60): “Una testimonianza indiretta [dell’infallibilità] proviene dalla regola della fede, che gli antichissimi padri hanno trasmesso.
S. Ireneo, che mostra che la regola risiede nell’accordo delle Chiese fondate dagli Apostoli, mostra allo stesso tempo una regola più breve e più sicura, cioè la tradizione della Chiesa romana, con la quale tutti i fedeli della terra devono essere d’accordo, a causa della sua preminenza, e nella quale conservano tutti la tradizione apostolica, stando in comunione con il centro dell’unità.
Così secondo S. Ireneo la fede della Chiesa di Roma è allo stesso tempo, per la dignità del primato, regola per tutte le altre Chiese, e, per la dignità di essere il centro, il principio conservatore dell’unità (…).
La stessa regola propone S. Agostino (…) [per il quale] per condannare l’errore dei Donatisti, basta provare che nessuno dei Vescovi Romani fu donatista; e dice che questa regola, a causa dell’autorità di Pietro, è più sicura e migliore per la salvezza”.
In conclusione: abbiamo provato sia tramite il Magistero della Chiesa sia tramite i documenti esplicativi del Concilio Vaticano, che per la Fede di ogni cattolico è necessaria la proposizione della Chiesa. Essa, pur non facendo parte del motivo della fede (“oggetto formale quo”) è tuttavia una condizione sine qua non affinché l’assenso del nostro intelletto sia un atto di fede divina (61). San Tommaso non ha atteso il Vaticano I per insegnare:
“L’oggetto formale della fede è la prima verità in quanto si rivela nella Sacra Scrittura e nell’insegnamento della Chiesa. Perciò, chi non aderisce, come a regola infallibile e divina, all’insegnamento della Chiesa, che scaturisce dalla prima verità rivelata nella Sacra Scrittura, non ha l’abito della fede, ma ne accetta le verità per motivi diversi dalla fede. (…) Se [qualcuno] accetta quello che vuole, e rifiuta ciò che non vuole di quanto la Chiesa insegna, non aderisce all’insegnamento della Chiesa come a una regola infallibile, ma alla propria volontà [divenendo eretico]” (II-II, q. 5, a. 3).
Pertanto, io credo ai Vangeli e alla Tradizione perché la Chiesa me lo dice e nel modo in cui me lo dice; in questo modo la Fede comporta la sottomissione dell’intelligenza.
Se invece credo per qualsiasi altro motivo, allora anteporrò alla Chiesa un altro criterio: le mie convinzioni, un santo, un Padre della Chiesa, un vescovo, un principe…, ma tutto ciò non è la regola prossima della Fede, è la rovina della Fede.
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c) Terzo errore di W: un rito liturgico promulgato dal Papa può essere “intrinsecamente cattivo”
W attacca Michael Davies perché «rifiuta ogni nocività intrinseca al messale della nuova messa, perché quest’ultimo è stato “solennemente” promulgato dal supremo legislatore» (p. 22).
W sostiene, a ragione, che il nuovo messale è cattivo. Ma sostiene pure, a torto, che colui che lo ha promulgato era la legittima autorità della Chiesa e quindi che la legittima autorità può promulgare un rito cattivo. W non riesce quindi a rispondere a M. Davies senza negare l’insegnamento della Chiesa secondo il quale le sue leggi, la sua disciplina, il suo culto, non possono essere nocive. Scrive Pio XII: «La Chiesa, in tutti i secoli della sua vita, non soltanto nell’insegnare e nel definire la fede, ma anche nel suo culto e negli esercizi di pietà e di devozione dei fedeli, è retta e custodita dallo Spirito Santo, e dallo stesso Spirito “è infallibilmente diretta alla conoscenza delle verità rivelate” (Cost. Ap. Munificentissimus Deus, 1/11/1950, definizione dogmatica dell’Assunzione)» (62). Non mancano molti altri argomenti d’autorità, riportati già da don Ricossa (63): «A coloro che negavano che i bambini avessero il peccato originale S. Agostino rispondeva che la Chiesa li battezzava, e “chi potrà mai addurre un argomento qualsiasi contro una Madre così sublime?” (Serm. 293, n. 10). San Tommaso, chiedendosi se il rito della Cresima è conveniente, dopo aver addotto tutte le obiezioni possibili, risponde semplicemente: “In contrario, basta l’uso della Chiesa, che è governata dallo Spirito Santo”; difatti egli aggiunge : “Il Signore ai Suoi fedeli ha fatto questa promessa: ‘dove due o tre sono radunati in nome mio, là sono io in mezzo a loro’ (Mt XVIII, 20). È quindi da ritenersi per fermo che gli ordinamenti della Chiesa siano diretti dalla sapienza di Cristo. È per questo dobbiamo essere certi che i riti osservati dalla Chiesa nella cresima e negli altri sacramenti sono convenienti” (III, q. 72, a. 12). È questa, sostanzialmente, la risposta che la Chiesa ha sempre dato a tutti quegli eretici che criticavano l’uno o l’altro dei suoi riti, o il loro complesso. Così, furono condannati gli hussiti, dal concilio di Costanza e da papa Martino V, i quali rifiutavano l’uso della comunione sotto una sola specie (D. 626 e 668) e disprezzavano i riti della Chiesa (D. 665); così, il concilio di Trento condannò i luterani, che disprezzavano il rito cattolico del battesimo (D. 856), la consuetudine di conservare il SS.mo Sacramento nel tabernacolo (D. 879 e 889), il canone della Messa (D. 942 e 953), e tutte le cerimonie del messale, i paramenti, l’incenso, le parole pronunciate a voce bassa, ecc. (D. 943 e 954), la comunione sotto una sola specie (D. 935)… Allo stesso modo, i giansenisti riuniti nel sinodo di Pistoia furono condannati da Pio VI per aver indotto a pensare che “la Chiesa, che è retta dallo spirito di Dio, potesse costituire una disciplina non solo inutile (…) ma anche pericolosa o nociva…” (D. 1578, 1533, 1573). Insomma, per farla breve, è impossibile che la Chiesa dia del veleno ai suoi figli (D. 1837, Vaticano I). Si tratta di una verità “così certa teologicamente, che negarla sarebbe un errore gravissimo o anche, secondo l’opinione della maggioranza, un’eresia” (card. Franzelin)». Anche su questo punto, quindi, per salvaguardare la legittimità di Paolo VI e Giovanni Paolo II, W deve contraddire la dottrina della Chiesa.
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d) Quarto errore di W: una definizione dogmatica può essere buona in sé stessa ma cattiva per accidens, cioè a causa delle circostanze Ecco quanto afferma W: “Non che la definizione del magistero solenne o straordinario infallibile fosse una cosa cattiva per sé, al contrario, ma per accidens (64), a causa della cattiveria degli uomini, ha contribuito molto alla svalutazione della Tradizione” (65).
Quest’affermazione è gravissima, ma rivelatrice dell’imbarazzo che la definizione dell’infallibilità crea negli esponenti della Fraternità. Se una definizione infallibile (per di più fatta solennemente da un Concilio Ecumenico) può causare in chi vi crederà un male, anche solo “accidentale”, vuol dire che lo Spirito Santo, causa di questa definizione, è causa del male nei buoni cattolici!
Altra cosa sarebbe il dire: in chi non ha creduto, la definizione è stata occasione di inciampo. Questo è vero non solo per il Concilio Vaticano, ma per tutti gli altri Concili; è vero per la morte di Gesù sulla Croce, pietra di inciampo, scandalo per i giudei, follia per i pagani (66); per la Legge dell’Antico Testamento, come lo spiega bene S. Paolo, che è stata occasione di caduta (67).
Ma né le definizioni, né Nostro Signore, né la Legge sono stati causa per accidens del male; la causa fu solo la cattiva volontà di chi agì male, di chi non volle credere.
Ma W potrebbe rispondere allegando la frase con la quale precisa il suo pensiero:
«La definizione del 1870 è stata buona per se, perché ha permesso di ancorare gli spiriti cattolici laddove i liberali facevano di tutto affinché tutto fluttuasse. Ma, appena la definizione fu cosa fatta, i cattivi liberali hanno immediatamente cambiato tattica: “Sì, d’accordo, evidentemente, abbiamo sempre creduto (ipocriti!!) che ci sia un magistero a priori infallibile alla sommità dell’insegnamento della Chiesa, ma chi non vede adesso che, al di sotto di questa sommità, nulla è assolutamente sicuro?” Per cui i liberali se la sono spassata a mettere in dubbio ogni verità al di sotto di questa sommità costituita dal corpo di verità definite infallibilmente secondo le quattro condizioni della nuova definizione del 1870» (68). Per W (ho già citato altrove quanto egli dice) i cattolici risposero a questa tattica liberale costruendo “un magistero ordinario infallibile a priori, ricalcato sul magistero straordinario infallibile a priori, con solo tre condizioni, o tre condizioni e mezzo, invece di quattro (69).
Ma no, appunto! Ci vogliono quattro condizioni, e non solo tre e mezzo, perché ci sia a priori, infallibilità. Ma questo magistero a tre condizioni e mezzo, era come necessario per consolidare una verità cattolica in questi spiriti falsamente abbagliati dal magistero solenne a quattro condizioni” (pp. 21-22).
In effetti, i “liberali”, che, come W e prima di lui, avevano contestato l’opportunità della definizione dell’infallibilità del Papa, avanzarono un argomento simile a quello che riferisce W… Leggiamo Leone XIII, nella sua condanna dell’americanismo: “Sarà dunque ora più utile confutare una opinione, portata quasi come argomento, per porre in buona vista ai cattolici l’anzidetta libertà. Si dice infatti non doversi più oggi preoccupare tanto del magistero infallibile del Romano Pontefice, dopo il giudizio solenne che ne diede il concilio Vaticano; posto questo magistero perciò al sicuro, si può lasciare ad ognuno più largo campo, sia nel pensare, sia nell’operare” (evidentemente perché, gli americanisti, come W, pensavano che tutto il magistero che non era stra-solenne, non era infallibile) (70). Se W e Leone XIII segnalano lo stesso pericolo, non danno però lo stesso rimedio! Per W esso si trova nella “Tradizione” interpretata senza il magistero. Per Leone XIII invece non è così: “Strano modo, a dir vero, di ragionare: poiché se si vuole essere ragionevoli, e tirare una conclusione dal fatto del magistero infallibile della Chiesa, tale conclusione dovrebbe essere di proporre di mai allontanarsi dallo stesso magistero, ma di affidarsi interamente ad esso, per venire ammaestrati e guidati, così poter più facilmente serbarsi immuni da qualsivoglia errore privato” (ibidem)!
Senza motivo, quindi, W critica l’opportunità della definizione del 1870, calcando le orme di Döllinger. Ben altrimenti ha giudicato la Chiesa sull’opportunità del Concilio Vaticano I. Lo stesso Pio IX ne parlò esplicitamente (71): “Certamente le vicende dell’epoca presente… dimostrano quanto sia stato opportuno quello che la Divina Provvidenza ha disposto: la proclamazione cioè della Infallibilità pontificia, quando la retta regola della fede e dei costumi era stata privata, tra difficoltà senza numero, di ogni sostegno”.
Pio XI ne diede lo stesso giudizio (72): “La Chiesa non chiede altro che di essere ascoltata prima di essere condannata: quanto più facilmente è giunta a tutti, ed almeno agli studiosi, la conoscenza degli Atti dell’ultimo Concilio, tanto più chiaro apparirà quale ignoranza, temerità e sfacciataggine ebbero i nemici della Chiesa, quando giudicarono come un crimine la decisione e gli effetti della decisione del nostro predecessore di santa memoria Pio IX. Chiunque consideri attentamente i documenti scritti, che si riferiscono e narrano la lunga preparazione del Concilio ed i lavori di questa importante e celebre assemblea dei Vescovi, si è obbligati – a meno che non si tenga in odio la religione e si sia accecati da pregiudizi – a riconoscere e proclamare che non senza un’ispirazione e protezione divina ebbe luogo la preparazione, la convocazione e la sessione del Concilio ecumenico Vaticano; e che il Pontefice, che per tanti meriti è consegnato all’eternità ed all’immortalità, non prestò attenzione tanto all’opportunità del suo tempo – cosa che negavano i censori poveri di mente – ma considerò e presagì piuttosto le necessità del futuro”.
La definizione dell’infallibilità, opportuna nel 1870, è ancora più opportuna e provvidenziale per i nostri tempi, per se e per accidens, anche se non per W!
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e) Quinto errore di W: le definizioni della Chiesa sarebbero dovute solo alla diminuzione della carità
Ci fermiamo brevemente su questo punto.
W dice che “a misura che la carità si raffredda” aumentano sempre di più le verità definite (73): qui egli vuole quasi sminuire la necessità del magistero, che non risulta più essere una regola stabile della nostra fede, sempre necessaria, ma un rimedio eccezionale e contingente dovuto alla cattiveria degli uomini. Invece, la storia ci insegna che l’occasione delle definizioni della Chiesa sono molteplici: la carità che si raffredda, degli errori nuovi che sorgono, l’approfondimento di problemi teologici, un più grande fervore. Se Leone XIII stabilì sulla validità delle ordinazioni anglicane, Pio XII sulla materia e forma dell’Ordine, si capisce bene che la carità non c’entra. Se Pio IX definì il dogma dell’Immacolata e Pio XII quello dell’Assunta, non fu certo per una minor devozione verso la B. Vergine Maria! Né si può dire che prima della definizione vi era maggior fervore verso questi dogmi, quando addirittura molti cattolici li negavano! La Chiesa infatti ha l’assistenza dello Spirito Santo non solo per conservare il deposito rivelato, ma anche per spiegarlo ed esporlo (DS 3070).
Anche qui, insomma, notiamo che W ha delle idee preconcette, ed in base a queste giudica molte cose erroneamente.
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Conclusione
Molti “tradizionalisti” credono che abbracciare la vera Fede nelle materie su esposte voglia dire rischiare di accettare tutto il Concilio Vaticano II con le sue riforme.
Sembra essere questo l’ostacolo più grave, che impedisce loro di prendere in seria considerazione la dottrina della Chiesa come l’abbiamo esaminata nei paragrafi precedenti.
La soluzione di questo nodo è stata esposta dalla Tesi di Cassiciacum: è impossibile accettare queste riforme, perché l’atto di Fede verso di esse è metafisicamente impossibile. Se crediamo ad esempio, di fede, che la libertà religiosa sia un errore, come potremmo mai credere che sia allo stesso tempo una verità rivelata? Se crediamo che l’ecumenismo sia cattivo, come la mia intelligenza può mai credere che sia una buona pratica per la Chiesa? Vi è un’impossibilità reale per la mia intelligenza di aderire a due proposizioni contraddittorie, entrambe proposte a credere dal Magistero: le prime, da quello dei Pontefici del passato, le seconde, da quello dei “pontefici” del post-concilio (Vaticano II). Ora il Magistero non può contraddirsi, e neanche la Fede. Dunque uno dei due è nell’errore. Ma se uno dei due è nell’errore, allora vuol dire, ipso facto, che l’“autorità” che l’aveva promulgato non era assistita dallo Spirito Santo. Non era formalmente l’Autorità (74).
Abbiamo mostrato con sovrabbondanza di documenti che il Papa è infallibile con il Magistero ordinario; che tale Magistero tratta sia le verità rivelate che le verità connesse con il rivelato; che con tale Magistero infallibile il Papa è la regola prossima della nostra fede.
Dato che W non accetta l’autorità dei “buoni autori dei manuali di teologia”, perché “hanno fatto il gioco dei liberali” (75), non abbiamo voluto prenderli in considerazione, ma ci siamo limitati ai documenti del Magistero, del Concilio Vaticano e della sua spiegazione. È possibile che W rifiuti anche l’autorità di questi: allora non ci sarà più alcuna autorità intermedia tra il fedele e la Tradizione? Ciascuno sarà per se stesso la regola della propria fede (76)? In tal caso vorremmo porre a W alcune domande. Se fosse vissuto al tempo in cui si discuteva sulla validità del Battesimo dato dagli eretici, o in quale giorno bisognasse celebrare la Pasqua, come si sarebbe comportato? Avrebbe seguito la “tradizione” o le decisioni del Papa? Se fosse vissuto al tempo in cui i giansenisti contestavano l’infallibilità del Papa sui fatti dogmatici, a chi avrebbe dato ragione? Interpretare da soli la Tradizione, perché ci sembra evidente o nel senso in cui noi la comprendiamo, non è questo un soggettivismo nell’atto di fede, l’atto più importante per la nostra salvezza? «Non è lecito – disse Pio XII – investigare e spiegare i documenti della “Tradizione”, trascurando o sottovalutando il Sacro Magistero» (77).

Note
1) Le sel de la terre, Couvent de la Haye-aux-Bonshommes, F – 49240 Avrillé, n° 23, Hiver 1997-8, pagg. 20-22.
2) Ibidem, pag. 20.
3) In nota i domenicani di Avrillé spiegano: “Michael Davies è un autore inglese che ha scritto diversi libri per difendere la Tradizione e in particolare Mons. Lefebvre.
Tuttavia egli non segue completamente le posizioni di Mons. Lefebvre, particolarmente sulla nuova messa. È presidente di Una Voce”. Le sel de la terre, pag. 22.
4) Per il Magistero Ordinario Universale, cfr. Sodalitium n. 41, pag. 57 e ss.; n. 45, pag. 30 e ss.
5) Conc. Vat. I, Cost. dogm. Pastor Aeternus, cap. IV, 18-7-1870.
6) Sodalitium n. 41, pag. 58.
7) Sodalitium n. 45, pag. 39.
8) Sodalitium n. 41, pag. 58.
9) Clemente VI, “Lettera Super quibusdam a Mekhithar, katholicos degli Armeni”, 29-9-1351, DS 1064.
10) PIO XI, Mortalium animos, 6-1-1928. DS 3683. Il testo è riportato in I. P. n. 871.
11) PIO XI Casti Connubi, 31/1/1930, I. P. n. 904-5.
12) PIO XII, Humani Generis, 12-8-1950, I. P. n. 1280